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Per Aspera Ad Veritatem n.4
Segreto e democrazia

Vincenzo CAIANIELLO




È opinione largamente condivisa che la democrazia sia da intendere come il governo del "potere visibile", nel senso che ad essa è connaturata l'esigenza che nulla resti relegato nello spazio del mistero. Questa configurazione concettuale ci è stata tramandata dagli archetipi della Grecia classica in cui la vita politica si svolgeva nei luoghi pubblici dell'agorà e dell'ecclesia, ove i cittadini esercitavano i loro molteplici diritti: tutti davanti a tutti potevano denunciare illegalità, sollevare accuse, presentare proposte, accogliere quelle altrui, vagliando le diverse argomentazioni svolte dagli oratori, i quali ultimi venivano diffidati dal compiere, nella foga dei loro discorsi, abusi che sconfinassero nella demagogia perché, come ammoniva l'araldo, la sanzione divina avrebbe subito colpito chi osasse ingannare il popolo.
L'Atene di Pericle assurse dunque nel tempo a modello ideale della democrazia intesa come governo pubblico in pubblico. Alla fine del XVIII secolo, l'autore di uno fra i tanti catechismi rivoluzionari, Michele Natale, il vescovo di Vico Equense, martire per aver partecipato alla gloriosa rivoluzione napoletana del 1799, alla domanda: "Vi è niente di segreto nel Governo democratico?" risponde: "Tutte le operazioni dei governanti devono essere note al Popolo Sovrano, eccetto qualche misura di sicurezza pubblica, che gli si deve tuttavia far conoscere, quando il pericolo è cessato".
Corollario di quanto ora enunciato è quel principio-cardine dello Stato democratico, per cui la pubblicità è la regola e il segreto è l'eccezione, che si giustifica solo perché, come ogni eccezione, ha una durata temporale rigorosamente limitata alle reali esigenze che lo richiedano. Il principio si può esplicare con riguardo al diverso carattere della dittatura sovrana (quella, per intenderci, attuata da Silla, che uno storico francese non esitò a definire "monarchia mancata") rispetto alla dittatura commissaria, normalmente prevista nel catalogo delle magistrature romane, allorché esigenze straordinarie richiedessero di sospendere temporaneamente la suprema carica repubblicana e di affidare ad un dittatore il governo per un massimo di sei mesi, non a caso proprio la metà dell'anno di carica dei consoli, ai quali ulti-mi, del resto, spettava la nomina del dittatore.
Dunque la pubblicità del potere è la regola dei regimi democratici, il segreto l'eccezione: ed è sintomatico - lo ricordava anni fa in un suo limpido saggio Norberto Bobbio - che anche quando, con la nascita del grande stato territoriale, il modello della democrazia rappresentativa soppiantò quello della democrazia diretta, proprio delle città-stato, il carattere non segreto del potere non cessò di atteggiarsi come importante (se non il più importante) elemento atto a distinguere lo stato costituzionale rispetto a quello assoluto.
Al riguardo, lo stesso Bobbio segnalava una proposizione di Schmitt molto significativa che merita di essere letta: "Rappresentare vuol dire rendere visibile e rendere presente un essere invisibile mediante un essere pubblicamente presente. La dialettica del concetto sta in ciò, che l'invisibile viene presupposto come assente e contemporaneamente reso presente".
A differenza che nella sfera privata dominata dalla riservatezza, che è tutelata da tutte le norme ed in particolare dalla Costituzione, l'esigenza della pubblicità del potere ha caratterizzato sempre più la società contemporanea: l'opinione pubblica pretende di discutere e criticare gli atti del pubblico potere, esige la pubblicità dei dibattiti politici.
Il principio trova accoglimento in Costituzione, ove, al secondo comma dell'art. 64, si stabilisce che le sedute delle Camere sono pubbliche, ma che tuttavia ciascuna delle due Camere e il Parlamento a Camere riunite possono deliberare di adunarsi in seduta segreta. Si tratta di una deroga al principio della pubblicità, giustificata da ipotesi in cui il Parlamento debba discutere di questioni attinenti alla sicurezza della collettività; una deroga che non è certo in contraddizione con il principio democratico della pubblicità, perché quando si verifichi quella evenienza la libertà di informazione senza limiti potrebbe produrre effetti perversi proprio rispetto alla democrazia. Ecco perché, come si vedrà in prosieguo, il diritto di informazione deve considerarsi non fine a sé stesso, ma in senso strumentale per la realizzazione della democrazia. A differenza di altri diritti di libertà, che nella demo-crazia devono trovare invece la loro piena esplicazione, il diritto di informazione può essere dunque conformato in funzione di quel fine.
Emerge così chiaramente che, nel rapporto democrazia-diritto di informazione, è la prima a doversi considerare il fine e il secondo lo strumento per raggiungerla, per cui possono ritenersi legittime tutte quelle deroghe al diritto di informazione, che pure costituisce la regola del regime democratico, dirette a creare le condizioni per la piena realizzazione della democrazia. Deroghe concepite perciò non in previsione degli arcana imperii - i misteri del potere sempre in agguato - ma in funzione del fine da raggiungere, cioè la conservazione della democrazia, secondo quanto si è già avuto modo di osservare nel farsi riferimento alla possibilità che, quando siano in gioco esigenze di sicurezza - una condizione questa indispensabile per la realizzazione della democrazia - lo stesso massimo organo rappresentativo della sovranità popolare, qual è il Parlamento, possa sottrarsi per Costituzione alla regola della pubblicità delle proprie sedute.
L'idea della democrazia concepita non in senso strumentale ma come fine - che giustifica a mio avviso taluni limiti al diritto di informazione ad essa finalizzati - è sostenuta di recente in un saggio di Gustavo Zagrebelsky, il "Crucifige e la democrazia", nel quale è individuato fra i due poli estremi, quello della democrazia dogmatica e quello della democrazia scettica, uno spazio intermedio: quello della democrazia critica. Non tutte le scelte fatte dal popolo sono un atto di democrazia, quando il popolo non è in grado di fare una scelta "informata", cioè critica, specie quando da essa dipende la vita di un uomo, come nel Crucifige gridato contro Cristo da una folla strumentalizzata dai due Centri di potere, il Sinedrio e l'Impero.
Rispetto a questo modo genuino di intendere la democrazia è indifferente, anzi non ha senso parlare di torto o di ragione; la democrazia critica, intesa come continua ricerca della verità possibile, rifiuta sia la dogmatica ("se la maggioranza lo esige, la verità sta da quella parte") sia lo scetticismo ("poiché mi è indifferente sapere dove sta il torto e dove sta la ragione, affido la scelta alla maggioranza"); la democrazia critica, a differenza di quella dogmatica e di quella scettica, si basa sull'etica della possibilità: le decisioni, anche quelle prese "democraticamente" dal popolo, devono poter essere sempre rimesse in discussione. Affinché sia sempre possibile il passaggio alla posizione dell'altro (infatti la mia posizione oggi è vincente, domani potrebbe essere migliore la tua), dato che non siamo in grado di sapere da che parte sia la verità, dovendo solo essere protesi alla ricerca di una verità possibile, dobbiamo affidare alla dialettica democratica le scelte politiche in modo che esse possano sempre essere risolte per il meglio; una meta, beninteso, che non può mai significare aver raggiunto la perfezione, perché il meglio nasce dalla ridiscussione di tutto e può a sua volta nuovamente essere ridiscusso.
Solo accettando la concezione di una democrazia critica può negarsi ad essa quel carattere strumentale che è invece proprio delle due concezioni estreme tra le quali la prima si incunea. Sia la concezione dogmatica, difatti, che quella scettica, tendono, come si è detto, a strumentalizzare la democrazia: la prima per l'affermazione di una verità irreversibile, la seconda per la scelta di una qualsiasi verità.
Ma entrambe queste ultime concezioni conducono a una configurazione distorta del diritto di informazione. Se la democrazia è strumentale per l'affermazione di una determinata verità, saranno possibili tutte le deroghe a quel diritto pur di consentire che quella verità sia raggiunta. Se la democrazia è strumentale per la ricerca di una qualsiasi verità, essendo indifferente l'una o l'altra, a quella democrazia non interesserà se l'informazione sia limitata o sia fuorviata, perché ciò che conta è che si faccia una scelta qualsiasi.
Se invece per democrazia deve intendersi la ricerca di una verità possibile, sempre perfettibile, il suo scopo è individuato in se stessa, perché è solo dalla piena realizzazione della democrazia che può dipendere quella possibilità, la democrazia che può definirsi così il regime della ragione, per dirla con una definizione che sarebbe stata cara a Spadolini.
In questo modo al diritto di informazione dovrà riconoscersi il massimo dell'espansione affinché possa addivenirsi a quella scelta critica, sempre in divenire, di cui si è parlato in precedenza. Ed è parimenti in questo modo che a quel diritto potranno riconoscersi deroghe dirette a creare le condizioni necessarie affinché quella scelta, per potersi considerare veramente "critica" - cioè non assiomatica, né dogmatica, né definitiva, né qualsiasi - possa risultare non condizionata da suggestioni esterne comunque fuorvianti, cioè da una informazione alterata.
È sotto quest'ultimo aspetto che possono giustificarsi altre deroghe al principio del "potere visibile" come quelle attualmente previste. È il caso della camera di consiglio per l'adozione delle decisioni dei giudici collegiali. Avendo la Corte costituzionale escluso che la segretezza della Camera di consiglio sia costituzionalmente garantita, la scelta della pubblicità o della segretezza stessa è affidata al prudente apprezzamento del legislatore che, salvo deroghe connesse con il problema della responsabilità del giudice, ha scelto nel nostro ordinamento la seconda via. Una scelta che si giustifica con l'esigenza di sottrarre il giudice, nel momento in cui debba esprimere la propria opinione e il voto, da possibili suggestioni o condizionamenti che possano provenirgli dall'esterno: un "esterno" talvolta confuso, aggressivo, pronto a mutare opinione al primo soffio di vento, la "folla" che, senza argomentare, come fa il giudice, ma determinata o manovrata da altri, sceglie in un modo o in un altro; quella stessa folla che pochi giorni prima ha osannato Cristo, oggi del tutto disinformata ne invoca la crocifissione. Una scelta, quella adottata in segreto dal giudice, che non sacrifica la regola della pubblicità, perché delle decisioni adottate nel segreto della Camera di consiglio, il giudice deve dare adeguato conto attraverso la pubblicazione della motivazione, imposta dall'art. 111 della Costituzione, il che significa che deve giustificare in pubblico la decisione, già adottata, con la forza di un'argomentazione plausibile.
Così anche si giustifica nel nostro ordinamento, alla pari che in tutte le democrazie moderne - ed è stata questa una conquista della seconda metà dell'800 in Inghilterra - la segretezza del voto nelle elezioni e nei referendum; una condizione, questa, costituzionalmente garantita e dettata dall'esigenza di assicurare la libertà del voto.
Veniamo ora al segreto in materia di difesa della sicurezza: tema che direttamente riguarda questo incontro.
Secondo la Corte Costituzionale (sentt. n. 82 del 1976 e n. 86 del 1977), il segreto politico e militare è limitato alla sola ipotesi in cui sia indispensabile alla sicurezza interna ed esterna del Paese nei confronti di azioni materialmente violente.
Ma, com'è stato notato (Barile), il legislatore del 1977 ha sfumato la sottolineatura della violenza che viceversa la Corte aveva affermato, richiamando però il valore della integrità dello Stato democratico che fa assumere all'espressione, come suggerisce lo stesso Autore, il significato della conservazione del corpo sociale.
È comunque opinione diffusa che coloro cui spetta di dichiarare la segretezza di un documento o di una notizia debbano interpretare le norme attributive del relativo potere in modo assolutamente essenziale e funzionale a quei fini. Questo criterio fa sì che l'apposizione del segreto debba tendere il meno possibile ad ostacolare le indagini giudiziarie dirette all'accertamento di reati, dovendosi ritenere che ciò possa essere consentito soltanto quando sia indispensabile ai fini del perseguimento di scopi connessi con la tutela di diritti costituzionalmente garantiti per la sicurezza dei cittadini: una condizione questa indispensabile per la realizzazione della democrazia. Ciò comporta anche che agli appartenenti ai servizi di sicurezza possa esser consentito di trasgredire a norme e a precetti - sempre esclusi quelli che tu-telino i diritti fondamentali della persona fra i quali, primo fra tutti, l'integrità fisica - soltanto se comportamenti del genere risultino strettamente finalizzati rispetto agli interessi costituzionalmente garantiti attraverso il segreto. Ma solo la legittima difesa o lo stato di necessità, già previsti dal diritto comune, potrebbero giustificare, e soltanto in favore della tutela di un altro diritto di pari grado e importanza, il sacrificio di diritti relativi alla integrità fisica. Questo aspetto riguarda proprio coloro cui questo discorso si rivolge perché, una volta affermato che l'apposizione del segreto possa coprire soltanto gli illeciti imposti dalla necessità di tutela di diritti costituzionalmente garantiti, nessuno potrebbe sperare di essere poi coperto dall'apposizione del segreto quando abbia posto in essere comportamenti non necessitati dai fini propri degli apparati di sicurezza.
Come è stato difatti sottolineato (Abbamonte), è il riferimento alla necessità che consente di far salva la coerenza del sistema democratico là dove ammette il segreto, nei limiti in cui costituisce il mezzo indispensabile per tutelare certi interessi, rilevanti secondo Costituzione. E così, parimenti, da altri (Paladin) si afferma che per ciascuna specie di segreti va sempre rintracciata una legittimazione d'ordine costituzionale e che comunque la tutela del segreto deve essere concepita in considerazione degli effettivi pericoli di danno e soltanto in vista di supremi interessi da proteggere, tenendo cioè sempre presente l'aforisma: lex rei publicae suprema lex esto.
Per concludere, nessun Paese moderno può fare a meno dei servizi di sicurezza perché sono indispensabili per salvaguardare la democrazia dagli attacchi esterni e dalla eversione interna.
Ma proprio perché il lavoro di quei servizi è circondato dalla segretezza, è molto più grave che chi vi prende parte, per la fiducia che gli viene riposta in modo così peculiare, possa tradirla per coprire gli arbitrî e gli abusi del potere o per assecondare l'eversione contro il potere.
L'auspicio è dunque che gli addetti ai servizi sentano la responsabilità di quella fiducia corrispondendo ad essa con un particolare e leale impegno della propria coscienza al servizio del Paese e della democrazia.


(*) Prolusione del Prof. Vincenzo CAIANIELLO, Presidente emerito della Corte Costituzionale, in occasione dell'inaugurazione dell'Anno Accademico 1995-96 della Scuola di Addestramento del SISDe (Roma, 27 novembre 1995).

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